In origine è la dipendenza, cioè la relazione madre-bambino. Winnicott che si è occupato molto dell’argomento arriva a sostenere che il bambino molto piccolo non esiste e afferma: “L’infante e l’assistenza materna formano un tutto unico” (Winnicott, 1970).

E’ di fondamentale importanza distinguere tra dipendenza e attaccamento. Sintetizzando a fini illustrativi e funzionali allo scopo di questo breve contributo, possiamo dire che la dipendenza riguarda i bisogni primari, quelli che gli analisti chiamano orali, cioè il ricevere passivo dall’altro. L’attaccamento ha a che fare con i bisogni esplorativi, evolutivi, cioè con la capacità, acquisita interiorizzando progressivamente un legame di sicurezza con figure significative, di occupare e conquistare spazi di ignoto. Ci troviamo, quindi, in contesti diversi, di fronte a concetti di ordine e grado molto differenti.

Da un punto di vista ideale l’individuo da un’originaria relazione di dipendenza totale, deve arrivare a sviluppare gradatamente un attaccamento a una realtà che è sempre più complessa e articolata.

L’attaccamento si configura come un gioco in cui più si può tollerare l’assenza della madre, tanto più ampio è il raggio d’azione e la capacità di distanziarsi da essa. L’assenza fisica viene sostituita dalla presenza interna, psichica della figura d’attaccamento, il tutto in un continuo scambio tra il dentro e il fuori, tra l’intrapsichico e l’interpersonale. Ciò che viene interiorizzato però non è la madre reale ma un insieme di relazioni e di rapporti tra il Sé del bambino e la madre, tra il Sé di quest’ultima e il mondo. E’ a questo livello che comincia ad intravedersi ciò che poi costituisce la gruppalità interna dell’individuo, cioè la trama di relazioni identificatorie.

Il piccolo di uomo, (così come ad esempio hanno dimostrato le ricerche su gruppalità e famiglia di Pontalti e Menarini), viene generato a più livelli, non solo a quello biologico.

Senza voler sottovalutare quelle che possono essere le predisposizioni, le inclinazioni e l’attività del bambino[1], si può dire che all’inizio la madre è la rappresentante del mondo, cioè è il mondo, e quanto essa più è stata e sarà capace di articolare il proprio Sé con quelli del partner, dei genitori e così via, più passerà al bambino un mondo di relazioni articolate e flessibili.

A questo punto siamo già comunque ad un livello di complessità gruppale notevole, cioè il bambino ha a che fare con un insieme di relazioni di grande ricchezza, tra cui il modo stesso in cui i genitori   – sia come singoli che come coppia –   vedono e percepiscono se stessi in rapporto con il figlio.

Tutta questa complessità e ricchezza naturalmente cresce mano a mano che il bambino viene a contatto con altri individui e sistemi, e ciò dipende anche da come i genitori si articolano essi stessi con gli altri contesti, in primo luogo le famiglie d’origine: “In ogni io c’è un altro, c’è una molteplicità di altri”, come afferma Morin (Morin, 1983).

L’individuo si costituisce come sistema relazionale, come trama di significati e di emozioni strutturanti l’esperienza. La gruppalità interna “determina”, assieme alle predisposizioni, il raggio d’azione, cioè i gradi di libertà e di autonomia dell’individuo, così come la possibilità di accedere ad altre funzioni più complesse connesse alla corrispondente fase del ciclo vitale.

Possiamo paragonare l’individuo ad uno spezzone melodico, cioè ad un segmento di frase musicale dotata di un senso. Tale segmento melodico può prendere varie direzioni sviluppandosi in infiniti modi. Se sovrapponiamo a questa melodia un’armonia, cioè degli accordi d’accompagnamento, si determina una gestalt totale in cui la melodia (la parte individuale), pur potendosi sviluppare in molte direzioni non può prescindere dal sistema di cui fa parte. L’armonia cioè suggerisce lo sviluppo ma pone dei limiti. La cosa interessante è che gli accordi possibili su una stessa melodia sono molti, e viceversa. Esistono accordi che suggeriscono sensazioni di riposo, altri di movimento, di tensione, malinconici, ecc. La melodia interagisce con l’armonia, l’una genera ed influenza l’altra, creando un tutto unico in rapporto ad un tempo e ad un ritmo. Variando gli accordi la musica può cambiare, così il carattere e l’emozione, ma la melodia resta sempre riconoscibile, mantiene la sua identità, a meno che tra armonia e melodia non vi sia troppa dissonanza (troppa distanza o confusione) per cui non si può più distinguere la seconda dalla prima perché non può emergerne. Può accadere anche l’opposto: se c’è eccessiva consonanza, non vi sono spazi per esplorare ed inventare: la musica è ferma, ogni spazio è saturo.

In natura in genere non esistono cose allo stato puro, che sono più che altro invenzioni dell’uomo, così è solitamente anche per i suoni, per cui una sola nota, scomposta nelle sue vibrazioni componenti risulta di un’infinità di altri suoni, detti “armoniche”, relazionati tra loro secondo particolari rapporti: l’individuo appunto è gruppale; ogni suono contiene in fondo tutti gli altri con intensità diverse che contribuiscono a determinarne il timbro e quindi la fonte, l’appartenenza.

Quando un individuo passa da un contesto familiare e quindi da una struttura armonica ad un contesto di gruppo, dove gli accordi e le armonie sono molti, ha la possibilità di risentire e sviluppare la propria melodia con un accompagnamento e ritmo diversi. Un po’ come fanno i jazzisti che usano spesso semplici canzoni la cui struttura armonico-melodica è stimolante   – cioè non è satura di significati “ideologici” –   per creare su una struttura “standard” musica nuova, creare nuove storie e significati[2].

Naturalmente questo processo non è dato automaticamente, dipende dall’“arte sistemica” dei musicisti[3].

Un semplice mutamento di ritmo, di timbro ecc. in uno dei musicisti si ripercuote spesso in maniera imprevedibile e talvolta “drammatica” su tutto il gruppo e sulla musica, fino talvolta ad erodere quasi completamente questa struttura standard (ad esempio l’originaria canzone), che comunque resta riconoscibile. E’ interessante perché ognuno è autore e spettatore nel “qui ed ora” rispetto all’altro.

Il musicista “spettatore” o potremmo dire accompagnatore, è tale solo fino ad un certo punto perché egli costantemente contribuisce a stimolare e fornire una struttura (background) al solista che si avventura, il quale a sua volta fa lo stesso, anche se ha la funzione momentanea di leader, cioè di chi racconta la storia.

Ad un certo punto i ruoli s’invertono. Ognuno porta un bagaglio espressivo che viene “forzato” dall’altro in una sorta di democrazia delle funzioni. Se la musica è buona, se i musicisti cioè nella tensione creativa erano rilassati ma attenti ad ascoltare ed ascoltarsi, sicuramente hanno fatto un’esperienza, riconnettendosi con parti di sé sconosciute, e questo si ripercuote (riverbera) anche sulle loro conoscenze, ampliando le loro capacità espressive. A volte basta cambiare o aggiungere un musicista nuovo nel gruppo e la musica può mutare totalmente.

E’ così che il terapista familiare ha un’occasione unica di “assaporare” altre “armonie” e “disarmonie” familiari nella sua professione. Egli, se è riuscito a raggiungere una certa sicurezza attraverso la conoscenza (esperenziale e non intellettualistica) delle dinamiche relazionali della propria famiglia d’origine (e del proprio Sé), può immergersi in quella in trattamento, riuscendo a prestare l’orecchio attento alla musica nuova che si crea dall’incontro/scontro della sua melodia con l’armonia e i ritmi e i timbri del sistema.

La possibilità di arricchimento reciproco può essere molto alto nella misura in cui il terapeuta mentre fa ciò, “dirige” e guida la famiglia verso nuove possibilità e spazi espressivi e verso una maggiore integrazione del gruppo familiare.

Egli può cominciare a “suonare” utilizzando l’armonia che fornisce la famiglia   – in genere ripetitive e limitate in un famiglia disfunzionale –   ma inserendo da subito piccoli elementi timbrici, ritmici e di accenti, e “out”, “dissonanti” che costringono il sistema a trovare variazioni d’accordo che però siano assimilabili per la famiglia stessa. Progressivamente egli amplifica sempre più questi elementi, fino a dilatare la struttura, a renderla più elastica ed articolata, e consentire che da questa armonia possano scaturire più articolate ma differenziate ed “autonome” melodie individuali e la famiglia possa cominciare a suonare e comporre da sola, insomma a “suonarsela e cantarsela” in modo più sano e godibile, senza l’aiuto dello “specialista”.

Il processo si configura quindi come una co-creazione e co-evoluzione del sistema totale terapista/famiglia.

Il terapeuta familiare dovrebbe attingere molto dalla propria “struttura armonica interiorizzata” (famiglia interna) nel lavoro con le famiglie. Egli ha preso contatto con questa struttura sicuramente attraverso il training di formazione e in alcuni casi l’esplorazione si è approfondita attraverso una terapia personale. E qui si pone se sia necessario, per comprendere ed intervenire su una struttura bio-psico-sociale così complessa come la famiglia, “completare” la formazione con una terapia familiare del futuro terapista.

E’ con la propria famiglia interna (Laing, 1969) soprattutto, che egli opera il confronto, trova similitudini e differenze per comprendere gli eventi che accadono in terapia, è lì che pesca accenti, colori e timbri, nonché ritmi e tempi.

La sua mobilità è la garanzia che egli possa utilizzare non solo le somiglianze con il suo sistema d’origine ma anche la diversità, al fine di arricchire e complessificare non solo se stesso ma il sistema terapeuta/famiglia. E questo è possibile in un processo costante in cui l’apprendimento e il cambiamento non sono veramente separabili. Ogni volta che c’è l’uno c’è anche l’altro: sia nella famiglia che nel gruppo in formazione, come anche nel setting terapeutico, il cambiamento e l’apprendimento costituiscono due momenti sempre presenti (Baldascini, 1988, 1990, 1993).

Quale psicoterapeuta in formazione ad esempio non si è ritrovato a riproporre nel gruppo la funzione svolta nella propria famiglia, confondendo e sovrapponendo i contesti? E’ da qui che, con l’aiuto del trainer, il gruppo si costituisce come occasione di crescita: ci si riunisce per apprendere e ci si ritrova in un processo di cambiamento.

A differenza della famiglia, che ha una tradizione, un’identità e una struttura tutta sua[4] nel gruppo, invece, è costruendo la propria storia che si costruisce una identità; in esso, da una fase iniziale in cui ognuno come dice Whitaker, si ripropone come “frammento della propria famiglia”, si passa ad una fase in cui il gruppo assume un assetto ed un’identità sua, propriamente gruppale dove ogni membro ha la possibilità di riconoscersi appartenente.

Da un intrigo di trame diverse si costituisce una trama comune. Così, dalla dipendenza, dimensione più propriamente iniziale ed (talvolta) iniziatica, si passa alla fase dell’attaccamento e quindi dell’appartenenza ad uno spazio relazionale più ampio.

Abitare questo spazio significa consapevolezza delle proprie gruppalità interne e possibilità di sperimentare percorsi di maggior autonomia e creatività.

 

Gioacchino Moccia

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Baldascini L., “Il passaggio segreto”,  in L’ANTRO DELLA SIBILLA, 1° Conv. Naz. dell’I.T.F. di Napoli, a cura di Aurilio R., Baldascini L., Gritti P., I.T.F., Napoli, 1988.
Baldascini L., “Il bene e l’utile”, in SPAZI DELLA MENTE, anno 2°, fasc. 4-5, Napoli, 1990.
Baldascini L. – L’adolescente e i suoi sistemi. Gli universi relazionali, le appartenenze, le trasformazioni – Franco Angeli, Milano, 1993.
Ferraris L., Lo Verso G. – “E’ possibile una psicologia di vertice relazionale? Il contributo gruppoanalitico”,  in TERAPIA FAMILIARE,  N° 27, I.T.F., ROMA, 1989.
Guidano V.F. – La complessità del Sé, Boringhieri, Torino, 1988 (1987).
Laing R.D. – La politica della famiglia, Einaudi, Torino, 1973 (1969).
Lo Verso G. – Clinica della gruppoanalisi e psicologia, Boringhieri, Torino, 1989.
Mitchell S.A., Menarini R., Ancona L., Pontalti C., Conci M. – Le matrici relazionali del Sé,   Il Pensiero Scientifico, Roma, 1992.
Morin E. –  Il metodo, Feltrinelli, Milano, 1983 (1977).
Pontalti C. – “La gruppoanalisi in psicoterapia familiare: note per la diagnosi in campo clinico”, in L’ANTRO DELLA SIBILLA, cit.
Winnicott D.W. – Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma, 1970 (1965).
Whitaker C.A. –  Il gioco e l’assurdo, Astrolabio, Roma, 1984.

 

[1]  Molti studi di vario orientamento stanno ormai chiarendo e dimostrando sempre più che il bambino sin dai primi momenti dalla nascita incide potentemente sulla relazione con chi se ne prende cura. Inoltre le ricerche e le esperienze nell’ambito dell’ipnoterapia e dell’ipnosi clinica avvalorano potentemente la ricchezza di esperienze che il bambino inconsciamente registra sin dal periodo uterino.
[2]  Lo stesso avviene per la storia (lo “standard”) raccontata dal paziente, e a seconda del terapeuta e del tipo di “incontro” si possono strutturare cose molto diverse, più o meno evolutive.
[3]  E dal contesto culturale, dall’abitudine all’ascolto, dall’orecchio più o meno allenato e a cosa del musicista.
[4]  In essa tutto ciò che è ideologia, mito e storia dipana una trama dove ognuno recita il proprio ruolo.