In questo intervento tenterò di fornire alcuni spunti di riflessione su una serie di parametri utilizzabili in mediazione familiare.

Sullo sfondo, proverò in particolare a tener presente cosa idealmente dovrebbero poter sperimentare bambini e ragazzi, per lo più solo presentificati nelle sedute, in seguito ad un processo di mediazione che si possa ritenere riuscito. In relazione alle varie fasi dello sviluppo si può dire, infatti, che la modalità con cui la prole si articola con la rete sociale costituita dalla famiglia nucleare ed allargata e dagli altri contesti significativi, rappresenta uno dei punti focali su cui “indirettamente” può convergere una parte importante del lavoro con la coppia di genitori. In quest’ottica, il mediatore familiare può quindi riferirsi, pur se “obliquamente” a tale modalità come a un utile indicatore del tragitto che i due genitori devono percorrere per migliore la qualità della relazione nell’area del “familiare”, una volta ridimensionato l’investimento nel conflitto sul piano coniugale o di coppia.

I riferimenti concettuali usati in questo contributo attengono all’approccio sistemico[1]. Si guarderà in particolare alle funzioni svolte dal sistema familiare, sia per le sollecitazioni che esse possono esercitare rispetto alla crescita ed autonomia dei figli[2], sia per le modalità con cui possono, invece, diventare occasione e strumento per imbrigliarli nel conflitto di coppia. La triangolazione è un meccanismo estremamente presente ed insinuoso nella conflittualità umana. Nelle coppie alle prese con separazioni e divorzi i legami intergenerazionali irrisolti tendono a materializzarsi sotto mille spoglie richiedendo continue triangolazioni per ridurre l’ansia; i figli sono i candidati principali nelle triangolazioni dei genitori. Nella stanza del mediatore questo gioco di “spostamento” della tensione viene inevitabilmente riproposto rendendo il mediatore stesso a rischio di rivestire inconsapevolmente panni filiali, con conseguenti risposte difensive e reattive sul piano professionale.

Le funzioni della famiglia, tutte fondamentali, trovano espressione specialmente nel tipo di relazione e di legame genitoriale, configurandosi come un gioco di rapporti all’interno del quale ogni figlio dovrebbe trovare varie componenti, tutte indispensabili per la costruzione di un ventaglio emozionale che renda possibile un adattamento sano ed adeguato ai vari contesti, per appartenere al “familiare” potendosene differenziare e procedere oltre.

In mediazione   – a differenza che in psicoterapia, dove si tende semmai ad abilitare e talvolta “fondare” queste funzioni –   l’obiettivo a cui si mira è ri-abilitarle, ri-attivarle, attraverso una stimolazione tesa a raggiungere una maggiore armonia tra esse, nell’ipotesi che la coppia genitoriale possa, pur se in crisi, per lo più assolverle, soprattutto una volta impegnatasi in un volontario e reciproco consenso a gestire la delicata fase.

A questo punto vorrei sottolineare un’idea centrale di questo modello: essa mi sembra che riguardi in modo particolare il lavoro a cui è chiamato il mediatore. Mi riferisco alla cosiddetta “normalità”, che può manifestarsi in una miriade di forme e non è racchiudibile in uno schema, a differenza di quanto solitamente accade, invece, per le situazioni disfunzionali. Strettamente connesso a questo dato, bisogna considerare che l’area d’intervento del mediatore familiare risulta in continuo divenire, così come ogni aspetto che riguardi la vita della famiglia, che assume forme sempre più diversificate; basti pensare, per fare un esempio legato alla sola nostra cultura, sia ai tanti modi in cui si manifesta il “familiare”, sia anche alle famiglie ricostituite, ricomposte e così via, che diventano una realtà sempre più frequente. Questa precisazione sull’estesissima gamma della salute mi sembra importante, tenuto conto che la mediazione familiare, essendo materia e pratica che si pone al confine di metodologie e professionalità notevolmente diverse, mentre ricerca un’identità ed una legittimazione, propone una serie di modelli che si rifanno a filosofie ed epistemologie talvolta molto lontane, pur se assimilabili per lo più all’area giuridica, sociologica o psicologica.

Questa matrice variegata[3], ricca ed in qualche modo intrigante, deve quindi suggerire attenzione e prudenza al fine di evitare facili generalizzazioni rispetto ai propri valori, alle proprie esperienze e metodologie operative, che costituiscono sempre “particolari singolari” rispetto alla molteplicità e varietà su cui si interviene. Ovviamente questo non significa rinunciare ad attingere con creatività alla propria originaria matrice professionale; l’importante è evitare di incagliarsi nelle strettoie di ogni particolare visione della realtà cui ciascuno di noi inevitabilmente fa riferimento.

I confini che segnano l’area della mediazione familiare, per il fatto stesso che la famiglia muta con sempre maggior rapidità, non risultano quindi facilmente delimitabili; la formazione in questo settore necessariamente non può allora essere illusoriamente mirata all’esclusiva acquisizione di tecniche. Si tratta di insegnare soprattutto una flessibilità ed un’attenzione alla complessità attraverso cui si esprime il “familiare” sano e funzionale, attraverso un apprendimento che consenta al futuro mediatore di sperimentare epistemologie non lineari, troppo vincolate cioè ai propri valori, alla proprie abitudini e storie.

Torniamo dunque alle funzioni che svolge la famiglia, che possono esprimersi attraverso vesti differenti a seconda del contesto culturale, pur trovando nella relazione genitoriale il principale agente attivante. Nel modello in oggetto sono state individuate quattro funzioni fondamentali, ovviamente solo per comodità esplicativa delineate come separate l’una dall’altra; esse sono: accogliere, elaborare, spingere e contenere. Brevemente le riassumerò nelle caratteristiche salienti per poi provare ad individuare possibili nessi che il mediatore può cogliere, sia per valutare che per operare, durante un processo di mediazione.

   Accogliere: significa creare uno spazio ed un tempo per consentire la “nascita”. L’individuo nasce sempre su più piani; c’è bisogno quindi che la famiglia non sia imbrigliata in legami saturi, già pieni, dove non c’è nulla da inventare e creare. L’idea è che bisogna “nascere” in un luogo per appartenervi e che senza appartenenza ogni esplorazione diviene impossibile. Il “nuovo nato” deve poter trovare un “utero” che fisicamente, mentalmente ed emozionalmente lo accolga, lo ”ospiti”, che gli consenta la mobilità indispensabile per trasformarsi, fino a poter andare via, come ogni “ospite” che si rispetti, semmai ritornando quando, ormai individuo, ne avrà bisogno, così come potrà ritornare se sarà il sistema ad aver bisogno di lui in quanto adulto, all’interno di un legame comunque flessibile.

Nel contesto della mediazione familiare, si può talvolta osservare questa funzione esercitata nei poli estremi: da un lato, allorquando si stimola eccessivamente alla dipendenza, iperproteggendo ad oltranza un figlio, in difesa semmai di posizioni arroccate contro l’altro genitore; qui l’“utero” accoglie ma scarseggiano le contrazioni vitali, non vi sono pressioni verso la sortita; al lato estremo, quando non c’è un’affettività disinteressata, dove accogliere può riguardare solo preoccupazioni legate all’indossare una divisa di genitore competente, perché in fondo l’attenzione è troppo presa dai propri bisogni insoddisfatti nel legame con il partner.

La seconda funzione considerata è elaborare: essa attiene a come la famiglia racconta e costruisce culturalmente se stessa, come “interpreta” il mondo. Lungo il continuum di questo racconto un figlio deve situarsi dando un senso alla propria individualità, in relazione ad un passato ed un futuro, ma con la possibilità di differenziarsi dalla storia relativizzando se stesso e la portata mitica del racconto. Questo narrare avviene non solo sul piano verbale e cognitivo, ma attraverso le membra, il volto e i comportamenti degli individui e della famiglia stessa che “parlano” e raccontano la propria storia, il proprio “sogno”.

In fondo, come vediamo noi stessi dipende da come ci raccontiamo e da quanta importanza diamo al racconto che costantemente “chiediamo” agli altri di fare di noi; si intuisce quindi quanto sia fondamentale che la narrazione “familiare”, principale passpartout di lettura della realtà, debba essere creativa, insatura per fondare una capacità di relazionarsi in modo flessibile e non vincolata ad aprire sempre le stesse porte che riportano nello stesso spazio angusto.

Quante volte in mediazione ciò che raccontano i partner in conflitto può tendere a diventare assoluto, estremamente ripetitivo e vincolante nella relazione con l’altro, con se stessi e con i figli? Spesso la prole è coinvolta in infinite definizioni e ridefinizioni puntualizzanti su come sono andate le cose, sui presunti motivi (lineari) che hanno prodotto l’insoddisfazione, il conflitto, la crisi e la rottura del legame. La storia si riscrive sempre da capo e uguale a se stessa ed in questo meccanismo di pseudo-elaborazione non è infrequente trovarvi imbrigliati componenti della famiglia estesa, della rete amicale, altre figure professionali e così via.

   Spingere è la funzione successiva: essa, talvolta ritenuta riduttivamente un attributo della paternità piuttosto che l’estrinsecazione di una complessità sistemica, riguarda il “gioco” che l’“utero” familiare deve attivare per consentire la dialettica tra appartenenza e separazione, dimensioni che solo vicendevolmente si possono autorinforzare ed equilibrare. Andare oltre il “familiare” senza perdersi è infatti possibile solo a chi sia individuo ed esclusivamente qualora si fondi un forte senso di appartenenza nei riguardi di ciò oltre cui bisogna spingersi; non si può, infatti, in nessun caso distanziarsi da un luogo dove non siamo ancora “venuti al mondo”.

La coppia in fase di separazione o di divorzio, quando è presa nel gioco delle colpevolizzazioni, non di rado, per la tensione che questi meccanismi proiettivi creano, come detto, tende a spostare e sviare la tensione sui figli. Sovente si ritrovano genitori che vicendevolmente e specularmente si accusano rispetto a quando, quanto ed in che direzione “contrarre” “l’utero familiare”. Ciò che sembra accadere in questi casi è che non è tanto la quantità ed il tipo di spinta ad essere significativa, ma il fatto che il figlio venga spinto e nel contempo frenato dal meccanismo dell’ipercoinvolgimento, cioè dall’essere preso in mezzo, attraverso l’investimento che su di lui viene fatto da un genitore contro l’altro, in opposizione alla famiglia d’origine di questi, alla sua filosofia, cultura, valori, e così via.

Infine troviamo il contenere, che etimologicamente significa tenere insieme. Questa funzione, tra le più studiate in ambito psicoanalitico, in quanto connotata spesso dal registro femminile e “materno”, tende impropriamente ad essere contrapposta allo spingere. Probabilmente potrebbe essere utile anche qui esercitarsi a considerarla un elemento intrinseco a un sistema funzionale complesso e non caratteristico di un ruolo o di un individuo particolare. Essa risulta indispensabile per tenere affettivamente insieme i membri e le membra del sistema, in modo che si possa assumere lo stress e l’angoscia legata ai cambiamenti sia inattesi, “catastrofici” che collegati al naturale dispiegarsi del ciclo vitale.

Questa capacità del sistema rende possibile la distribuzione più equa dello stress connesso alla crescita e agli eventi che ne creano un surplus. Su di un piano simbolico rappresenta un vero e proprio contenitore che trascende le vicende del singolo individuo e delle singole storie.

Quando la coppia genitoriale è impegnata nella lotta, l’aggressività e la distruttività dovute alla disistima di sé e al dolore della disillusione, possono risultare tali da limitare la capacità del sistema familiare di contenere l’ansia e l’angoscia. In questi casi i genitori, vincolati ed “obbligati” dai propri vissuti, possono avere grosse difficoltà a ritrovare se stessi, perdendo la possibilità di mantenere una comunicazione chiara, sgombra da triangolazioni e coerentemente affettiva con i figli. Può avvenire allora che questi sentano, in seguito alla rottura del legame di coppia, che si sia spezzato anche il legame con i singoli genitori, che essi non li amino più, o peggio, “verificare” di non essere mai stati amabili.

Preservare e salvaguardare l’aspetto di contenimento nel rapporto che ogni genitore può recuperare con i figli, risulta operazione estremamente significativa sia per la prole che per i genitori stessi. Il mediatore può tentare di attivare questa capacità della famiglia lavorando sulle emozioni dei partner, al fine di consentire ad ognuno di essi di migliorare il rapporto con i singoli figli, di riappropriarsi della propria genitorialità. A Napoli si dice: “I figli so’ piezze ‘e core!”, ma spesso non è così, perché essi o vanno alla testa o sono pezzi di altri organi[4]. Far in modo che i figli possano sentirsi amati da ogni genitore, al di là della relazione di coppia e relativamente alle risorse disponibili, è un obiettivo che attiene, come dice Cigoli, allo scambio ed al rapporto tra le generazioni, dove, evitando di entrare in una logica lineare puerocentrica o semplicemente adattiva, si colga che l’interesse del minore è l’interesse di tutta la famiglia. Questo autore, infatti, sottolinea come il bene del figlio non possa essere disgiunto dal bene del padre e della madre[5].

In completo accordo con questa visione, sono convinto che ognuno di noi ogni tanto intuisca che ciascun individuo, ogni generazione ha il dovere, ma anche il diritto, di chiudere i conti, di far sì che s’interrompa o, almeno si riduca, la “catena di S. Antonio” legata ai bisogni irrisolti che altrimenti devono essere proiettati e molto probabilmente rivissuti dalla generazione successiva. E’ profondamente paradossale ma sembra che le cose procedano proprio così: i genitori possono pagare il conto e farlo o con i figli o con i propri stessi genitori, in ogni caso si spezza “la catena” solo se si assume realmente la genitorialità di se stessi. Non che questo in mediazione sia sempre possibile con quel padre, con quella madre, e nel modo in cui mi è piaciuto delinearlo, ma mi sembra che rappresenti un possibile percorso.

Credo si possa dire, utilizzando un’idea centrale del modello delineato e del paradigma che ha al centro le funzioni della famiglia, che il compito centrale e più qualificante di questo sistema umano resta insegnare ad amare, cioè insegnare a donare. Questo è possibile solo allorquando il baricentro della relazione genitoriale, dall’ombelico, luogo fondamentale deputato alla naturale istintività, al legame di dipendenza, alla possessività viscerale ed al bisogno di ricevere e trattenere, e quindi alla gratificazione personale e al desiderio di affermazione personale, comincia a vibrare e spostarsi verso l’alto, verso l’amore incondizionato. In qualche modo, infatti, solo in questa migrazione le quattro funzioni di cui abbiamo parlato possono dispiegarsi più armonicamente, senza scollegamento ed eccessiva accentuazione o assolutizzazione di una a dispetto delle altre oppure, di rigida polarizzazione e separazione tra le stimolazioni provenienti dall’area paterna e da quella materna. Il mediatore familiare deve tentare di aiutare quel padre e quella madre a far sì che “ciò che resta del familiare” si orienti in questa direzione, diventi un dono, perché in fondo i figli resteranno sempre tra l’ombelico ed il cuore dei genitori, e la distanza tra questi due punti è piccola, è solo un palmo, una mano completamente aperta. Lo stesso ovviamente vale per il mediatore!

 Gioacchino Moccia

 Bibliografia di riferimento

[1] In particolare all’esperienza maturata nell’utilizzo del “modello di articolazione intersistemica” ed ai risultati, teorici ed operativi, della ricerca clinica cui Luigi Baldascini è pervenuto negli anni con l’équipe dell’Istituto di Psicoterapia Relazionale, all’interno della quale il sottoscritto ha operato per un lungo periodo.

[2] Vedi in: “Baldascini L. – Vita da adolescenti. Gli universi relazionali, le appartenenze, le trasformazioni – F.Angeli, Milano, 1993”; articolo “Configurazioni spaziali del legame intergenerazionale e ciclo di vita della famiglia”, in press.

[3] Vedi in: Castelli S., La mediazione: teorie e tecniche, Cortina, Milano, 1996

[4] Talune volte si potrebbe dire che essi “esistono” solo nella testa.

[5] Marzotto C., Telleschi R. (a cura di) Comporre il conflitto genitoriale. La mediazione familiare: metodo e strumenti, Unicopli, Milano, 1999.